GREEN OR GREED?
Nel dibattito sull’ecosostenibilità, c’è un grande tema che negli
ultimi anni ha preso, a merito, una visibilità sempre maggiore: il
greenwashing.
Anche se le informazioni a riguardo sono reperibili ovunque online, ci
risulta necessario provare a mettere le basi per una comprensione più
attenta di questo fenomeno.
Che cos’è il greenwashing?
Il greenwashing è un tipo di disinformazione, legata al mondo del marketing
e della pubblicità, in cui un prodotto viene presentato come
ecologicamente responsabile nascondendo agli occhi del possibile
consumatore il suo reale – e negativo – costo umano e ambientale.
Il termine deriva dal verbo to whitewash, che significa “imbiancare”, e che
per estensione si utilizza con il significato di “occultare” o
“insabbiare” un fatto: il greenwashing è dunque l’occultamento
dell’insostenibilità di un determinato prodotto attraverso l’utilizzo, nella
sua pubblicizzazione, di immagini, frasi e parole che rimandano al mondo
del green, se non di vere e proprie menzogne o di messaggi fuorvianti.
Nel meccanismo di domanda e offerta, i consumatori e le consumatrici hanno il
potere di inviare importanti messaggi con le proprie scelte, di fatto
obbligando il mercato ad offrire prodotti sostenibili nel senso più ampio
del termine. In Italia, secondo un recente studio realizzato da Nomisma in
collaborazione con Spin Life, il 61% dei cittadini si dice disposto
a cambiare le proprie abitudini per ridurre l’impatto ambientale. Proprio
grazie a questo trend, secondo il Rapporto sulla Bioeconomia in Europa,
l’economia bio ha percepito in Italia nel 2018 un incremento di oltre 7
miliardi di euro rispetto all’anno precedente.
Tuttavia, il miglioramento delle condizioni di produzione può avvenire solo
nel momento in cui sussiste un rapporto di fiducia tra impresa e
consumatrici/consumatori. E in questo rapporto, la pubblicità e l’immagine
del prodotto svolgono un ruolo fondamentale. Il problema centrale del
greenwashing è proprio questo: il brand con un comportamento
globalmente insostenibile che si appropria di immagini e valori legati
all’ecologia al fine di risaltare rispetto alla concorrenza, oltre a
migliorare la propria reputazione approfittando di un problema globale,
mente al pubblico, così aumentando una generale sfiducia verso i prodotti ecocompatibili.
Un esempio di greenwashing recente è la collezione ‘Conscious’ di H&M
del 2019. Sebbene il gigante svedese sostenesse essere realizzata con
materiale proveniente da fonti sostenibili, in realtà pare consumasse
quantità enormi di risorse non rinnovabili o incompatibili con la
sostenibilità. Basta guardare al fatto che, secondo il WWF, per
produrre una singola maglietta di cotone sono necessari 2,700 litri di
acqua.
Inoltre, nonostante sempre più aziende vantino un’attenzione verso l’ambiente, in realtà
non esistono vere e proprie definizioni legali per parole come
“sostenibile”, “green” o “rispettoso dell’ambiente”, il che significa che
sono libere di utilizzarle senza ripercussioni. Perciò, distinguere
aziende che fanno greenwashing da quelle che legittimamente si
impegnano nella sostenibilità può risultare difficile.
Come riconoscerlo
Futerra ha costruito una guida al greenwashing basata su alcuni fattori che,
se individuati, possono aiutarci a comprendere quando è il caso di evitare
un certo acquisto e preferirne un altro che sia veramente sostenibile.
1. Il linguaggio vago:
come abbiamo visto, termini non normati giuridicamente come eco-friendly,
green o sostenibile vengono utilizzati per indicare un generale interesse
verso l’ambiente, ma non sono sufficienti a garantire che i prodotti siano
realmente sostenibili.
2. Il brand nel suo complesso:
spesso informarci riguardo alle azioni complessive di un brand può aiutarci
a capire se il suo interesse per l’ambiente sia reale o una trovata
pubblicitaria.
3. Immagini suggestive:
una delle caratteristiche del greenwashing di più vecchia data è l’utilizzo
di immagini e parole collegate al mondo naturale, senza che esse abbiano
una vera connessione con il prodotto e le sue conseguenze.
4. Affermazioni irrilevanti:
brand che enfatizzano una caratteristica secondaria, o che comunque
costituisce solo una parte del prodotto finito – come 30% di cotone
biologico in una t-shirt – spesso mantengono in realtà invariata la
propria catena produttiva.
5. Il migliore della classe
essere il meno peggio in un’industria devastante non è sufficiente. Dai
nostri brand dobbiamo esigere un reale e profondo impegno verso
l’ambiente.
6. Gergo incomprensibile
ci vuole trasparenza. Diffidiamo di brand che utilizzano gergo che solo scienziati
o esperti potrebbero capire e verificare.
7. Senza evidenze
il tuo brand preferito potrebbe realmente essere sostenibile. Ma dove sono
le prove?
8. L’amico immaginario
quando un brand dichiara che il proprio prodotto è approvato da un
terzo, controlliamo che quest’ultimo esista davvero e che non abbia
evidenti conflitti di interessi.
Quali sono le alternative?
Sebbene possa sembrare difficile evitare brand che fanno uso del
greenwashing, il problema alla radice è il sistema di produzione di massa.
Apporvi dei correttivi esaltandone l’intenzione sostenibile, potrà
difficilmente essere sufficiente.
Ciò che possiamo fare è imparare a sostenere le realtà che appartengono, per
loro natura, a sistemi alternativi di riuso e di autoproduzione. Il brand
minore handmade e upcycled, attento ai materiali, il mercato di seconda
mano, la riscoperta di vestiti e oggetti già in nostro possesso o di
qualcuno vicino a noi, sono le realtà e le abitudini che dovremmo e
che possiamo tuttə sostenere invece di insistere su multinazionali che
difficilmente potranno mantenere le loro promesse o rispettare le nostre
esigenze.
Fonti:
Futerra greenwash guide: https://www.slideshare.net/patsario/futerra-greenwash-guide
La Bioeconomia in Europa 6° Rapporto: https://group.intesasanpaolo.com/content/dam/portalgroup/repository-documenti/research/it/bioeconomia/virapporto/La%20Bioeconomia%20in%20Europa%20N.%206.pdf
Osservatorio Packaging del Largo Consumo: quando la svolta green incontra il
favore dei consumatori: https://www.nomisma.it/osservatorio-packaging-del-largo-consumo/
The Impact of a Cotton T-Shirt: https://www.worldwildlife.org/stories/the-impact-of-a-cotton-t-shirt
Credits:
Edoardo Andreoli & Isabella Cordua